SOCIOLOGIA: VERSO UN LAVORO PIU FLESSIBILE?

 VERSO UN LAVORO PIÙ FLESSIBILE?

Nel corso degli anni 80 del secolo scorso, la soluzione proposta da Keynes sulla disoccupazione viene messa in discussione virgola e nell’ambito della riflessione sul lavoro e sull’occupazione è emerso un nuovo concetto: quello di flessibilità.

UNA NOZIONE CONTROVERSA

Il termine flessibilità in generale, indica la capacità di qualcuno o di qualcosa di adattarsi facilmente a contesti e situazioni differenti. In riferimento al lavoro la flessibilità indica una situazione in cui le varie caratteristiche dell’attività lavorativa non sono stabili ma sono soggette a cambiamenti e fluttuazioni.

Alcuni studiosi distinguono tra:

  •           Flessibilità del lavoro: intesa semplicemente come possibilità di modificare l’attività del lavoratore per adattarla alle congiunture della produzione
  •           Flessibilità dell’occupazione: consiste nella messa in discussione dei tradizionali aspetti giuridici e statuari del rapporto di lavoro, che privano il lavoratore di garanzie di sicurezza nell’impiego.

C’ERA UNA VOLTA IL POSTO FISSO

Fino agli anni 80 del Novecento il mondo del lavoro europeo è stato caratterizzato da un elevato grado di stabilità: di norma un lavoratore era assunto a tempo indeterminato in un’azienda.

A garantire questa stabilità contribuiva anche la legge sociale dei vari paesi, impegnata tutelare con apposite norme la sicurezza del posto del lavoro contro la possibilità di licenziamenti e mobilità. Questa situazione ha cominciato a modificarsi alla fine dello scorso secolo, quando l’espansione dei mercati nazionali seguente alla globalizzazione, ha implicato un acuirsi della concorrenza tra le aziende, costrette a smerciare i loro prodotti a costi minori e virgola di conseguenza, poco propensi ad assumere nuovo personale per evitare di contrarre impegni difficilmente sostenibili a medio lungo termine. In questo mutato contesto, il sistema di garanzie sociali a tutela del lavoratore è stato percepito da parte delle imprese come un vero e proprio limite, che, bloccando il flusso del lavoro in uscita, al tempo stesso lo rendeva problematico quello del lavoro in entrata, riducendo di fatto la capacità di assorbimento della manodopera disponibile.

Una possibile via per far fronte alla congiuntura dei mercati, rivitalizzando la domanda di lavoro senza per questo penalizzare le aziende, è stata intravista nella flessibilità, ovvero nella possibilità, di una carriera lavorativa caratterizzata da frequenti cambiamenti professionali: un abbandono del vecchio “posto fisso” per lasciare spazio ad un mercato del lavoro dove licenziare è diventato più facile.

LA SITUAZIONE ITALIANA: IL LIBRO BIANCO DI BIAGI

Con la pubblicazione del libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, che esponeva i risultati della ricerca commissionata dall’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali, Roberto Maroni, a un gruppo di esperti diretto da un noto studioso del diritto del lavoro, il professor Marco Biagi, si è acceso il dibattito sulla flessibilità in Italia.

All’inizio del nuovo millennio il tasso di occupazione italiano risultava il più basso tra quello dei paesi aderenti all’unione europea, inferiore di 10 punti rispetto alla media europea e ben lontano dall’obiettivo del 70% gli occupati entro il 2010 fissato dall’Unione. La situazione non era quindi per niente confortante.

Il tasso confermava inoltre il carattere persistente di ben noti squilibri economici tra nord e sud che affliggono la nostra nazione: la sua distanza rispetto al tasso di occupazione europeo infatti virgola e da imputare in massima parte alle regioni del Sud, che sono inferiori alla media europea di più di 20 punti percentuali. Per esaminare nel dettaglio i problemi del lavoro in Italia l’indagine procedeva poi scomponendoli secondo criteri anagrafici, di età e di genere.

Il Libro bianco evidenziava un tasso di disoccupazione giovanile tra i più elevati dell’unione europea. Accanto alla disoccupazione giovanile, la ricerca metteva in luce un dato apparentemente contrastante: un tasso di occupazione inferiore alla media europea anche per quel che riguardava la fascia dei lavoratori anziani, tra i 55 e i 64 anni di età. Quest’ultimo dato, se in parte può dipendere dal più ampio problema della disoccupazione che affligge il mercato del lavoro italiano, probabilmente affonda le sue radici altrove, e cioè nel particolare regime previdenziale vigente il nostro paese, per il quale il diritto alla pensione è stato a lungo legato più all'anzianità di servizio che è quella anagrafica.

Per quel che riguarda il fattore del genere, l’indagine evidenzia il permanere della distanza tra il tasso di occupazione femminile europeo e quello nazionale, seppure con forti differenziazioni su base regionale. I tassi di disoccupazione risultavano confortanti per il centro nord, meno preoccupanti per le regioni del Sud punto tre fattori che rallentano l’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne italiane certamente da segnalare la diffusa carenza di strutture pubbliche quali gli asili nido e le scuole d’infanzia punto più in generale poi, la tendenza a far ricadere sulla componente femminile della popolazione i compiti di cura all’interno della famiglia.

LA SITUAZIONE ITALIANA: LEGGE 30/2003

Le sollecitazioni provenienti dal Libro bianco hanno trovato una concreta attuazione con la legge 30 del 14 Febbraio 2003, conosciuta comunemente come legge Biagi. Il decreto legge del 2003 tenta di dare attuazione al progetto di flessibilizzazione del mercato auspicata dal Libro bianco e lo fa principalmente tramite l’introduzione di nuove tipologie di contratti di lavoro.

Prima di tale data, la legislazione del nostro paese prevedeva un numero limitato di forme di lavoro subordinato, distinte in base alla durata del contratto o all’orario di lavoro settimanale.

Secondo il primo criterio si distingueva tra lavoro a tempo indeterminato e lavoro a tempo determinato. Relativamente all’ orario di lavoro settimanale si distinguevano il lavoro a tempo pieno, intorno alle 40 ore settimanali distribuite su 5 giorni, e il lavoro a tempo parziale anche chiamato lavoro part-time.

Le nuove disposizioni legislative hanno introdotto nuove forme di occupazione: ad esempio, il rapporto di lavoro intermittente anche chiamato lavoro a chiamata. E stato anche introdotto successivamente il lavoro accessorio, che consiste in prestazioni occasionali svolte da soggetti non ancora entrati nel mercato di lavoro o a rischio di esclusione sociale. viene introdotto poi anche il lavoro ripartito, chiamato anche job sharing, regolato da un tipo di contratto con il quale due lavoratori si impegnano ad adempiere congiuntamente alla stessa obbligazione lavorativa.

Con le nuove disposizioni legislative viene anche  disciplinato il settore della mediazione tra offerta e domanda di lavoro, un compito che spettava allo stato. La necessità di adeguarsi alle normative europee in materia aveva già fatto sorgere le cosiddette “agenzie interinali”; a partire dal 2003 vengono introdotte anche le “agenzie per il lavoro”.

Il lavoro somministrato prevede di fatto due contratti: uno tra l’agenzia il prestatore d’opera, l’altro tra l’agenzia e l’impresa in cui il prestatore d’opera andrà concretamente a lavorare per un periodo di tempo determinato.

Un’ultima tipologia di lavoro introdotta nel 2003 e il lavoro a progetto, di fatto divenuto una delle forme tipiche con cui i giovani accedono oggi al mercato del lavoro.

FLESSIBILITÀ : RISORSA o RISCHIO?

Sul processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro innescato dalle disposizioni legislative appena riassunte i giudizi degli esperti e delle parti in causa rimangono a tutt’oggi assai variegati.

Buona parte dell’opinione pubblica e convinta che la parola flessibile rappresenti non solo un rischio, ma anche un’opportunità,  in grado di stimolare i lavoratori a cogliere le occasioni più lucrose offerte dal mercato. A conforto di questa valutazione sembrano parlare anche i numeri: le statistiche diffuse dall’Istat relative agli anni successivi alle nuove disposizioni legislative, attestano una diminuzione del tasso di disoccupazione più o meno su tutto il territorio nazionale. L’ottimismo trova un alleato in molti commentatori e operatori economici, che i valutano positivamente il processo di flessibilizzazione del mercato e ne sollecitano addirittura il potenziamento.


Tuttavia vi sono anche voci di dissenso che contestano in primo luogo la possibilità di una lettura ottimistica del rapporto tra nuovi contratti di lavoro e crescita dell’occupazione. se anziché assumere un lavoratore a tempo indeterminato, un’azienda assume due riprendente per sei mesi, uno a Marzo e l’altra settembre, non si può dire che sia realmente aumentata l’occupazione, è stata semplicemente diluita. Una seconda questione è il fatto che la breve durata del contratto limiti il consolidamento delle conoscenze delle competenze professionali acquisite dal prestatore d’opera.

La perplessità maggiore riguarda le gravi conseguenze della flessibilità sulla vita dei lavoratori punto la trasformazione delle forme di reclutamento significa per molti un’impossibilità di disporre di garanzie salariali nel lungo periodo, non potendo quindi programmare per il futuro.

Uno dei maggiori esperti in materia delle trasformazioni del mercato del lavoro italiano, il sociologo torinese Luciano Gallino, a questo proposito sostiene che la richiesta di mercato del lavoro più flessibile, lungi dal configurarsi come un meccanismo virtuoso che lubrifica il sistema produttivo, e piuttosto da intendersi come una conseguenza della globalizzazione economica in particolare della concorrenza creatasi tra i lavoratori occidentali e quelli dei paesi in via di sviluppo punto la debolezza di questi ultimi in termini salariali e dei diritti garantirebbe cioè alle imprese disponibili in mano l’opera a basso costo, e omologherebbe verso il basso anche le condizioni dei lavoratori occidentali, mettendone in qualche modo in discussione i diritti già acquisiti.

Commenti

Post popolari in questo blog

SOCIOLOGIA: IL WELFARE STATE

SOCIOLOGIA: IL LAVORO OGGI

SOCIOLOGIA: LA GLOBALIZZAZIONE